5.12.06

La radiofonia italiana durante gli anni del fascismo -II. Radiofonia italiana


Radiofonia italiana

“Ho in mente un piano che potrebbe fare della radio uno strumento domestico, come il grammofono o il pianoforte. il ricevitore sarà progettato nella forma di una scatola radiofonica musicale adatta a ricevere diverse lunghezze d’onda che si potranno cambiare a piacimento spingendo un bottone. La scatola musicale avrà un amplificatore e un altoparlante telefonico incorporati nel suo interno. Sarà tenuta in salotto e si potrà ascoltare musica, conferenze, concerti” (1).
Con questa idea, nel 1916, David Sarnoff aveva anticipato immaginariamente un progetto commerciale capace di rivolgersi a un numero ampio di consumatori, un’innovazione tecnologica capace cioé di comunicare simultaneamente ad un numero sempre maggiore di utenti, musica, conversazione, notizie: la radio come mezzo di comunicazione di massa.
La geniale intuizione di Sarnoff, era però un’idea ancora estranea culturalmente e tecnologicamente dalla mentalità dell’epoca, legata ad un intrattenimento di massa basato sull’uso del cinema, del giornalismo popolare; l’idea di potere ricevere tra le pareti domestiche le voci del mondo esterno, non era stata ancora tradotta in organizzazione tecnica, industriale e commerciale, tanto più che l’uso commerciale della radio presupponeva lo sfondamento delle mura domestiche e l’invasione dell’intimità di ciascuno individuo. Inoltre gli obiettivi dell’industria delle comunicazioni erano la “telefonia senza fili”, poiché era questo il settore che più interessava i governi.
Agli inizi del secolo XX, per questi motivi, la radiofonia, schiacciata dall’enorme sviluppo della radiotelegrafia, fu relegata ai margini delle telecomunicazioni; inoltre essa era guardata con diffidenza poiché le si rimproverava l’eccessivo potere diffusivo che esponeva i messaggi all’ascolto più indiscriminato, indiscreto e occasionale, si preferì così accantonare la radio per poter garantire ancora la riservatezza delle trasmissioni, tendenza alla segretezza che fu accentuata con lo scoppio della prima guerra mondiale.I primi progetti di radiodiffusione furono elaborati nell’immediato dopoguerra, con il ritorno della pace si rese possibile cioè quel capovolgimento di mentalità che aprì la via del successo al broadcasting. Insieme al telefono, la radio fu una delle poche industrie a trarre enormi vantaggi dalla guerra, in tutti i paesi direttamente coinvolti nel conflitto si sviluppò come mezzo bellico, cominciando così la sua trasformazione.
Verso la fine del secondo decennio del secolo si delineano i due sistemi antitetici di radiodiffusione che saranno da allora in poi considerati i modelli classici dell’organizzazione radiofonica: il monopolio pubblico del broadcasting in Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia e il sistema privato del network negli Stati Uniti d’America (2) .
La grande patria della radiodiffusione europea fu l’Inghilterra, dove nell’ottobre del 1922 si era costituita la British Broadcasting Company (B.B.C.) che dava così inizio al primo regolare servizio di radiodiffusione del continente, a cui seguì una proliferazione di emittenti a Berlino, Danimarca e Cecoslovacchia, inaugurando così un rapido processo di industrializzazione e commercializzazione. Dal 1922 al 1924 furono installati negli Stati Uniti oltre mille stazioni emittenti, gli apparecchi crebbero da centomila a novecentomila e in Germania alla fine del 1924 si registrava già oltre mezzo milione di abbonati.
Negli Stati Uniti tra il 1912 e il 1916 furono rilasciate più di ottomilacinquecento licenze di trasmissione, e l’enorme estensione territoriale, a differenza della Gran Bretagna, consentiva uno sfruttamento più ampio delle bande, senza causare dannose interferenze nell’etere.Nel 1920 a New York, David Sarnoff, ottenne finalmente il suo permesso e i finanziamenti per realizzare un modello della Radio Music Box, nacque così la WJY che il “ luglio 1921 trasmise in diretta l’incontro di pugilato Dempsey-Carpenter, che fu ascoltato da più di trecentomila persone. La grande strada dell’etere era stata tracciata(3) .
La rivoluzione radiofonica investiva i paesi più sviluppati dell’area atlantica, dove si manifestavano i primi grandi processi di massificazione della storia contemporanea. In Italia i progressi della radiodiffusione mondiale ebbero scarsa risonanza, la stampa non diede molto rilievo al nuovo fenomeno, se non come un evento futuribile e di tanto in tanto di manifestava rammarico per il ritardo nei confronti dei traguardi raggiunti dagli altri Paesi.
La prima legislazione italiana sulle comunicazioni senza fili risale al 1910, con un progetto redatto da Carlo Schanzer che assegnava l’esercizio delle radiocomunicazioni nelle sfera dei servizi pubblici e sottoponeva a regime restrittivo le concessioni a società private, da cui derivò la legge 30 giugno 1910 n° 395 ispirata a preoccupazioni militari e che considerava la radio esclusivamente come mezzo di comunicazione, ignorandone la natura fortemente innovativa. L’avvento della prima guerra mondiale troncò tutti i progetti in corso e accentuò la concezione antidiffusiva della radio, ma intanto si era creata una esigua schiera di radioamatori, certamente non paragonabile a quelli degli altri Paesi. I tentavi di alcune emittenti ebbero scarsi risultati. Come quelli di “Radio Araldo”, che iniziò, nel 1922 a Roma un rudimentale servizio di radiodiffusione, intercettato da poche decine di appassionati.
Fu in coincidenza dell’avvento del fascismo che la questione delle radiocomunicazioni tornò attuale ed il fatto che nella penisola la radio si sviluppasse per intero durante la fondazione del regime fascista rese facile a Mussolini porre questo importante mezzo di comunicazione sotto il suo pieno controllo.
Mussolini si era appena insediato alla Presidenza del Consiglio che si trovò ad affrontare la questione del ruolo della radio, quando ricevette nel novembre del ‘22 un promemoria d segreto da Filippo Bonacci, portavoce di un gruppo privato interessato a promuovere la formazione di una rete radiofonica in Italia. Il documento sottolineava che tanto il pubblico che il governo fascista avevano importanti interessi economici e politici in un rapido sviluppo della radiofonia e si ricordava tuttavia che “ l’Italia è l’unica delle grandi potenze che non abbia ancora un completo e organizzato servizio pubblico radiotelegrafico internazionale a mezzo di un grande ente, che faciliti l'espansione della rete italiana all’estero, dove, per evidenti ragioni politiche, il Regio Governo non può direttamente intervenire con servizi statali.
Da parte di società estere è stato finora ostacolata, mediante una ingiusta propaganda, la costituzione di un grande ente radiotelegrafico italiano, e ciò allo scopo di far sorgere in Italia tante piccole società dipendenti dalle maggiori società estere le quali poi fra loro sarebbero d’accordo per il controllo dei servizi radiotelegrafici italiani” (4).
La conseguenza di ciò era stata che mentre le altre potenze avevano già un sistema sviluppato di comunicazione radiofonica, l’Italia restava priva di una rete radiofonica efficiente. Per porre rimedio a questa situazione Marconi, ed un gruppo di investitori privati avevano creato una società nota come SISERT (Società Italiana Servizi Radiotelegrafici e Radiofonici), era disposto a mettere a disposizione del regime tutti suoi brevetti in cambio di una concessione governativa che gli consentisse di organizzare un sistema radiofonico di portata nazionale e mondiale. Mussolini respinse la richiesta di Marconi tanto più che in quel periodo l’inventore non godeva di molta fiducia a causa di un processo contro di lui per il fallimento della banca Italiana di Sconto di cui era presidente; il duce però decise comunque di coprirsi le spalle con un decreto che riservava allo Stato ogni futuro impianto per l’esercizio delle comunicazioni, con facoltà del governo di accordarli in concessione a società private. Nello stesso anno Marconi scrisse a Mussolini, sollecitando il regime ad intervenire nel campo della radiofonia, sottolineando al duce l’opportunità politica di porre il controllo della radio nelle mani dello Stato e il grande potenziale del nuovo mezzo di comunicazione ai fini della propaganda.
Con l’appoggio ufficioso di parecchi esponenti governativi furono elaborati progetti per la creazione della prima grande stazione radiofonica italiana; insieme con l’URI (Unione Radiofonica Italiana), Marconi contribuì ad erigere a Roma una emittente che il 6 ottobre 1924, cominciò a diffondere, con il consenso del regime, i suoi primi programmi sperimentali, i quali nonostante iniziassero con l’inno fascista “Giovinezza, consistevano principalmente di musica e la propaganda governativa ancora non vi aveva trovato posto.
Il regime concesse all’URI a partire dal dicembre ‘24 per un periodo di sei anni il monopolio delle trasmissioni su tutto il territorio nazionale; la concessione si intendeva rinnovata per un periodo di altri quattro anni, qualora nessuna delle parti l’avesse disdetta. L’URI si impegnava a garantire la regolarità delle trasmissioni per sei ore al giorno e a costruire altre stazioni a Milano e a Napoli; infine il governo si riservava due ore al giorno per le proprie comunicazioni e faceva obbligo alla società di mettere in onda, in caso di urgenza, comunicati per conto dello Stato anche nell’orario destinato alle normali trasmissioni. Superate le esitazioni iniziali il regime fece così il suo ingresso nel campo delle comunicazioni radiofoniche e cominciò a scorgere il valore potenziale della radio come veicolo di propaganda e di standardizzazione culturale.
La radio vedeva così la sua luce nella fase del processo di consolidamento autoritario del nuovo potere, proprio quando la classe dirigente fascista si poneva il problema del controllo dell’opinione pubblica per superare la crisi provocata dal delitto Matteotti (5).
Nel luglio del ‘24 il regime creò legislativamente una seri di rigidi controlli intorno al nascente broadcasting, dove le restrizioni della libertà di stampa erano destinate a ripercuotersi sulla radio che rimase a lungo tributaria dei quotidiani di informazione, e poté servirsi solo per breve tempo di una propria agenzia radiotelegrafica prima che le fosse imposta, nel 1924 la Stefani come unica fonte per i suoi notiziari.
La coincidenza della nascita del broadcasting in Italia con la fondazione dello Stato fascista fu però puramente occasionale difatti le prime trasmissioni dell’URI avevano ben poco a che fare con il nuovo clima politico, si trattava di programmi basati su brani di musica, concerti da camera, canti dialettali. Il parlato consisteva in bollettini metereologici, informazioni commerciali e imitazioni umoristiche, i notiziari erano brevissimi, ed i programmi erano prodotto in studio, senza schemi, da un’equipe improvvisata.
La concezione allora ancora prevalente considerava la radio come una meraviglia domestica, come una scatola magica a che annullava le distanze, come un giocattolo dagli effetti miracolosi. “Nei caffè il programma della sera includerà un concerto radiotelefonato; a casa, i bimbi si addormenteranno incantati da una meravigliosa fiaba che una grande scrittrice racconterà a tutti i bimbi d’Italia. Seguiranno altri portenti: il ricevitore che, attacato all’automobile, rastrellerà le vibrazioni dell’etere mentre la macchina è in casa; l’apparecchio tascabile; l'apparecchio nascosto nel cappello. Respireremo il pensiero nell’aria” (6).
Lo squallore dei programmi dell’URI non sconfortava però i primi possessori di apparecchi ricevitori: i quali erano più interessati alla qualità delle ricezioni piuttosto che ai contenuti dei programmi. L’ascolto radiofonico non è ancora quel fenomeno collettivo promosso su basi di massa dal regime fascista, l’ascolto é soprattutto un attività connessa alla conoscenza tecnica dello strumento, dell'apparecchio, intorno al quale si formano rapidamente, sulla base del modello inglese, numerose associazioni, come la RAI (Radio associazione Italiana), la FIR (Federazione Italia Radiocultori) e molte altre ancora.
La creazione di un pubblico realmente di massa esigeva che si passasse da una produzione di industriali dilettanti, che costruivano solo su ordinazione, ad un sistema che garantisse prodotti di qualità. I costi elevati e l’impossibilità di una produzione di massa frenavano il decollo di questa industria e rendevano impossibile l’acquisto, per cui una buona radio aveva un costo medio di tremila lire più la tassa di licenza, l’abbonamento, mentre il reddito medio annuo era di 3498 lire.Le vendite, dato il costo proibitivo, erano riservate ai centri urbani e ai ceti più abbienti; inoltre soprattutto nelle zone meridionali, il pregiudizio, l’analfabetismo, l’isolamento, il costume arretrato delle masse rurali e il più basso tenore di vita certamente non favorivano l’espansione del nuovo mezzo .
Intanto l’URI si impegnava a triplicare i programmi, per cui fu necessario informare gli abbonati sulle trasmissioni che sarebbero andate in onda e a tale scopo fu pubblicato a partire dal gennaio del 1925 il Radiorario, la rivista dell’URI con i programmi settimanali (7).
Durante il 1925 accanto ai concerti, prendeva posto il parlato radiofonico: argomenti di moda, viaggi, conversazioni letterarie; scarsi restavano i notiziari che riportavano qualche informazione già apparsa sui quotidiani o fornite dall’agenzia Stefani. L’evento radiofonico più importante dell’anno fu l’inaugurazione della stazione di Milano che si distinse subito per una migliore organizzazione dei programmi, per la varietà delle trasmissioni, dedicate anche ai bambini con una rubrica di giochi, fiabe e brani per l’infanzia.
La stazione milanese ebbe anche il privilegio di trasmettere per la prima volta un discorso di Mussolini che celebrava il terzo anniversario (8) della marcia su Roma e dopo qualche mese un discorso di Roberto Farinacci. La stessa stazione lombarda cominciava a dare in chiusura di trasmissioni, le prime notizie sportive: un fatto molto importante perché per la prima volta la radio anticipava la stampa nella diffusione delle notizie.
Tra la fine del ‘25 e i primi del ‘26 i programmi delle due emittenti italiane risultavano arricchiti, nonostante ciò la realtà radiofonica italiana restava modesta ed il numero degli abbonati stentava a crescere.
La diffusione regolare di notiziari si ha verso il 1929 quando fu creato, su insistenza del governo il giornale Radio, il quale con sei trasmissioni quotidiane dava conto degli avvenimenti internazionali, dei progressi del regime e delle varie attività politiche; fu praticamente il primo grosso tentativo di fornire agli italiani in modo sistematico, un informazione d’attualità controllata e mediante questo semplice espediente il regime fu in grado di introdurre la politica direttamente nelle case di tutti gli italiani. Nel 1930 Lando Ferretti, allora capo dell’Ufficio Stampa diede istruzioni all’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche, EIAR, (già URI) di preparare le attrezzature per la radiocronaca diretta di tutte le assemblee pubbliche all’aperto, patrocinate dal governo o dal partito, naturalmente le più importanti trasmissioni di questo tipo erano quelle da piazza Venezia quando Mussolini parlava alla folla dal balcone del suo studio.
Nel 1931 quasi il 50% dei programmi dell’EIAR aveva carattere musicale, i notiziari il 22% ed il 10% era costituito da programmi per bambini, il resto dallo sport e dalla pubblicità.Alla fine del' 31 c’erano in Italia 9 grandi stazioni radiotrasmittenti, ma nonostante la popolarità della radio fosse notevolmente aumentata, non era ancora divenuta una presenza costante nella vita quotidiana degli italiani, i quali nutrivano nei suoi confronti ancora vaghi pregiudizi. Furono alcuni esponenti del regime tra cui Arnaldo Mussolini a sottolineare quale fosse uno dei più importanti compiti nei confronti dello sviluppo della radio, la quale doveva conformarsi a rigorosi criteri di responsabilità, per cui il suo sviluppo andava seguito e controllato poichè la radio non doveva diffondere canzonette ma assolvere una funzione educativa. Il comitato superiore di controllo sulla radiodiffusione nel 1931 evidenziò due principali fattori di debolezza della radiofonia: il numero limitato di apparecchi presso i contadini e gli operai e ma necessità di sviluppare nuove tecniche per utilizzare la radio come strumento di cultura. Il comitato suggerì per superare questi ostacoli che il governo distribuisse apparecchi radio a ciascun gruppo del dopolavoro, scuola e istituti, e che inoltre la radio dovesse trasmettere un maggior volume di programmi culturali, attraverso i quali si sarebbe potuto effettuare un indottrinamento culturale e politico di massa.
Nel corso degli anni ‘30 le preoccupazioni della politica radiofonica fascista si concentrarono su questi due punti. Sotto la direzione di Costanzo Ciano il Ministero delle Comunicazioni dotò di apparecchi radio le scuole rurali, con lo scopo di raggiungere non solo gli scolari ma anche le loro famiglie; i primi mille apparecchi distribuiti venivano utilizzati a turno dalle scuole comunali e di sera erano offerti in prestito alle organizzazioni degli agricoltori. Nel giugno del ‘33 fu creato l’Ente Radio Rurale, incaricato di distribuire apparecchi radio nelle scuole elementari delle campagne. Il vero scopo della radio rurale era naturalmente quello di portare sistematicamente la propaganda fascista alle masse rurali, tradizionalmente isolate, e inoltre per quanto riguarda le scuole rurali quello di fornire agli insegnanti, attraverso la radio, uno strumento didattico per rendere più piacevoli le lezioni di storia e di educazione civica; considerato anche che molti insegnanti in passato si erano lamentati per il fatto che i ragazzi dei loro paesi non avevano mai ascoltato la voce di Mussolini e che quindi il fascismo e i suoi capi non potevano avere una presa immediata. I programmi destinati però specificamente agli ascoltatori della radio rurale erano scadenti e semplicistici, cominciavano con brani musicali, discorsi di esponenti dell’EIAR, programmi religiosi, scientifici.
Nel 1942-43 Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione Nazionale, promosse esperimenti di uso didattico della radio durante le vacanze, per permettere agli studenti di studiare a casa. Nonostante questi tentativi di superare il provincialismo culturale e politico, permaneva tra i contadini una diffusa riluttanza nei confronti di un apparecchio che non faceva altro che sconvolgere il loro modello di vita, legato all’isolamento, e inoltre i programmi culturali non erano altro che un doppione di ciò che già si faceva a scuola, per cui la radio era ancora considerata come fonte occasionale di svago, per cui l’obiettivo mussoliniano della radio in ogni casa non fu raggiunto; alla fine del 1937 il totale degli abbonati all’EIAR ammontava a ottocentomila ed erano in funzione diciotto stazioni trasmittenti.
Fattore di ostacolo all’acquisto di un apparecchio rimaneva ancora l’alto costo, indubbiamente proibitivo per una famiglia operaia media. Il regime cominciò, verso il ‘33, a considerare l’idea di produrre una radio popolare, ad un prezzo bassissimo così che potesse entrare anche nelle case più modeste. Il programma della “radio popolare” fu annunciato al pubblico nell ‘aprile del 1937 con il nome di “radio balilla”, ed offriva un apparecchio in modello unico, semplice al prezzo di 430 lire, pagabili in 18 rate mensili. Il progetto della “radio balilla” si propose di dare alle classi lavoratrici delle città e della campagne la possibilità di acquistare un apparecchio radio ad un prezzo modesto ed inoltre attraverso esso , l’istruzione, la musica,e la cultura in generale avrebbero cessato di essere privilegio di pochi.
La formazione di un pubblico radiofonico fu in realtà realizzata con esiti diversi da quelli che il regime desiderava, con una contrapposizione tra l’incentivo all’ascolto di massa e una gestione autoritaria dello strumento per ciò che riguarda l’apparato produttivo. La radio sarebbe poi penetrata nei ceti operai soprattutto come hobby, addirittura con atteggiamenti di rifiuto della programmazione e dell’ascolto passivo, con una notevole attenzione alle radio di altri Paesi, che alle soglie del secondo conflitto mondiale costituirà le basi dell’ascolto clandestino.
Il processo di massificazione della radio fu dunque in Italia lento e parziale, lento perché i ceti popolari furono per molto tempo esclusi dall’ascolto e parziale perchè la tradizione dilettantistica e la pratica dell’ascolto individuale rappresentarono la vera esperienza della radio, per cui si dubita che ci sia stato un rapporto stretto tra totalitarismo fascista e massificazione degli ascoltatori.







Note

(1)Memorandun di David Sarnoff per il presidente dell’American Marconi Company, in Franco Monteleone, ‘“Storia della radio e della televisione Italiana”, ed. Marsilio, Venezia, 1992, pag.3.

(2)Antonio Papa, “Storia politica della radio in Italia”, ed. Guida , Napoli

(3)Franco Monteleone, op.cit.

(4)Franco Monteleone, op.cit.

(5)Antonio Papa, op.cit.

(6)Il <<Broadcasting >> in Italia sarà perfezionatissimo, <<La Tribuna>>, 4 ottobre 1924, anche in A. Papa, op. cit. pag.24.

(7)Alberto Monticone, “Il fascismo al microfono”, ed. Studium, Roma

(8)Il primo discorso di Mussolini alla radio è del 1924, ma a causa di un inconveniente tecnico i radioascoltari ascoltarono soltanto scariche e fischi: da qui nasceva una certa diffidenza del duce verso la radio, diffidenza vinta in seguito al discorso per le Americhe diffuso dalle stazioni a onda corta di Roma.

20.11.06

la radiofonia italiana durante gli anni del fascismo -I . Il consenso




Il "consenso"



La storia della radio in Italia, inevitabilmente si intreccia con la costruzione del "consenso" al regime fascista.
La più recente storiografia che ha affrontato il problema del radicamento del potere fascista in una società di massa, si trova sostanzialmente d’accordo nell’interpretare il “consenso” al regime come il risultato di una combinazione tra elementi coercitivi ed elementi persuasivi.

La repressione si esprime in un’opera di disintegrazione politica della società e di chiusura di qualsiasi mezzo alternativo di trasmissione di messaggi capaci di formare e diffondere opinioni non autorizzate.

Il periodo che va dal ‘22 al ‘26 è caratterizzato prevalentemente dall’uso di meccanismi coercitivi miranti alla dispersione di qualsiasi forma di opposizione organizzata e alla soppressione, con le leggi eccezionali del ‘26, del pluralismo politico e al soffocamento dell’opinione pubblica antifascista. In questo primo periodo gli strumenti di persuasione sono elementi stessi dell’apparato repressivo in quanto prevale l’uso della forza diretta sugli antifascisti e indiretta sul popolo, forza e coercizione fondamentali per il consolidamento del fascismo.

Nel periodo successivo dal ‘26 al ‘30 prosegue l’opera di scomposizione di quanto resta del mondo politico prefascista e il fascismo priva il popolo di qualsiasi libertà, mentre vengono create e potenziate tutte le organizzazioni politiche e sindacali fasciste, pilastri dell’edificio dittatoriale. In questa fase gli elementi coercitivi prevalgono ancora sugli strumenti di persuasione, vale a dire il consenso al regime è prevalentemente coatto.

Compiuta l’opera di demolizione e di compressione sociale, il regime provvede alla completa riorganizzazione delle forze sociali in forme e strutture nuove, tramite il ministero delle Corporazioni; la Carta del Lavoro sancisce la politica sociale del fascismo. Non è solo la classe lavoratrice a venire inquadrata: tra il '26 - ‘30 si ha una fascistizzazione dell’intera popolazione attraverso molteplici interventi organizzativi, con particolare cura nei confronti delle giovani generazioni. L’Opera Nazionale Balilla afferma il monopolio fascista sulla gioventù; viene introdotto nelle scuole il testo di Stato e gli insegnanti delle scuole elementari e medie vengono obbligati al giuramento; in parallelo procede la fascistizzazione delle Università con la formazione dei Gruppi Universitari Fascisti e poi anche per i docenti universitari scatta il giuramento.

“ A questo periodo, ne segue un altro che dura un decennio fino allo scoppio della seconda guerra mondiale e che ha al suo interno una cesura rappresentata dall’impresa d’Etiopia e dalla proclamazione dell’impero nel 1936, anno in cui il regime sembra raggiungere il massimo consenso compatibile con la persistente passività o tacita ostilità di settori non trascurabili della popolazione e con il massiccio apparato repressivo perfezionatosi dopo le esperienze degli anni venti attraverso il varo dei nuovi codici penali, dei due testi unici di polizia, del potenziamento e della riorganizzazione della polizia politica e di quella segreta (l’Ovra)”(1).

E’ dunque il periodo in cui si potenziano i meccanismi della persuasione per ottenere il consenso funzionale al dominio totalitario sulle masse. “Accanto all’apparato repressivo tipico dei regimi dittatoriali, per tutto il ventennio si vengono sviluppando e perfezionando tecniche moderne di organizzazione, comunicazione e informazione che assicurano al fascismo una presa sempre più forte nella società fino a racchiuderla entro un sistema monolitico, pressoché impermeabile alle influenze esterne”(2). Le nuove tecniche cui si riferisce la citazione sono particolarmente evidenti negli strumenti di informazione di massa, che durante la dittatura fascista vengono appunto potenziate e modernizzate al massimo. L’informazione radiofonica e cinematografica è tra i nuovi mezzi di comunicazioni di massa(3) più utili al regime. Inizia la diffusione regolare del giornale radio, i media intervengono così su un pubblico di cittadini disintegrati politicamente e facilmente vulnerabili dalla propaganda.

Quando nel 1943 crollò completamente l’edificio fascista, l’Italia possedeva un organizzatissimo sistema di stazioni e reti radiofoniche.

“ In realtà il potenziale valore della radio come veicolo di propaganda e di standardizzazione culturale non apparve immediatamente chiaro a Mussolini. Ma una volta riconosciute pienamente le sue implicazioni, i fascisti procedettero a sviluppare e sfruttare la radio facendone uno strumento decisivo della loro politica e del loro lavoro culturale”(4).Bisogna tener conto del fatto che proprio negli stessi anni in cui si consolidava il potere politico di Mussolini sullo Stato italiano, si sviluppava in contemporanea la radio come sistema di comunicazione(5) . Quando il fascismo salì al potere, l’Italia però non possedeva ancora una rete radiofonica di vaste dimensioni; non c’era ancora nessuna emittente che funzionasse continuatamente e la radiofonia si poteva considerare in via sperimentale.

In Italia la radio divenne un mezzo di comunicazione di massa durante gli anni ‘30(6) , anni di presunto massimo consenso raggiunto dal regime. Nel gennaio del 1928 il governo concesse all’Eiar il monopolio di tutte le trasmissioni radio nella penisola. Con il 1930 ogni grande città aveva la sua emittente e, a partire dal 1933, tutti i programmi importanti erano trasmessi sulla rete nazionale. Nel 1935 il regime cercò di rifornire di apparecchi radio anche le zone rurali per inserire i contadini nel circuito del consenso nazionale.

“ Per ampliare l’area di ascolto, che continuava ad essere limitata al ceto medio urbano delle regioni centrosettentrionali, il governo provvide a che fossero installati numerosi apparecchi, con relativi altoparlanti, in tutte le sedi delle organizzazioni del partito (a cominciare dalle case del fascio), nei dopolavori, nelle scuole, negli uffici, nelle caserme, nei principali ritrovi pubblici. Per raggiungere i ceti contadini si diede vita persino a un Ente radio rurale. Questo vasto piano di diffusione dei posti d’ascolto assicurò al regime fascista ampie possibilità di pianificazione del consenso e di mobilitazione psicologica delle masse, come risultò evidente in particolare durante la guerra d’Etiopia tra il 1935 e il 1936 e, successivamente, in occasione dell’intervento italiano nella guerra civile in Spagna e fianco delle forze franchiste. D’altra parte, per rendere permanente l’opera di persuasione e indottrinamento totalitario attraverso i canali radiofonici, venne stabilito con un decreto legge del 26-09-1935 (convertito nella legge 9-01-1936) che il controllo sui programmi dell’Eiar fosse di competenza del ministero di stampa e propaganda”(7).

Il passaggio dell’informazione radiofonica sotto il diretto controllo del ministero per la stampa e la propaganda fu dovuto a due avvenimenti esterni: l’ascesa del nazionalsocialismo in Germania, e la guerra di Etiopia, che mobilitò l’intero sistema della propaganda fascista(8).

<<Rispetto alle due precedenti imprese coloniali italiane la guerra d’Etiopia poté vantare una preparazione politica, militare e psicologica assai più accurata, nella quale l’organizzazione del consenso diveniva un problema essenziale e investiva in primo luogo, oltre che le classi dominanti nella loro totalità, le stesse masse popolari>>(9).

In questa fase il ruolo dell’informazione radiofonica veniva rivalutato. Solo la radio era capace di diffondere con immediatezza il messaggio politico e la ricezione simultanea di esso sull’intero territorio nazionale.

Con il trasferimento dei programmi radiofonici sotto il diretto controllo del ministero per la stampa e la propaganda, la radio diveniva parte integrante dell’organizzazione fascista del consenso. A dirigere questo ministero fu chiamato Galeazzo Ciano (10).

Ciano, già dal 1933, quale capo dell’ufficio stampa, aveva fatto svolgere alcuni studi sui problemi della radio e del cinema e propose a Mussolini di creare una divisione speciale per i due settori; era favorevole a che l’ufficio stampa assumesse il controllo diretto delle radiodiffusioni (11).

Con la guerra d’Etiopia, il regime, mette a punto la propaganda bellica, tanto che l’entrata, nel 1940, in guerra dell’Italia non colse impreparata l’EIAR.

Obiettivo principale del regime fascista fu il controllo della vita culturale italiana; strumento politico amministrativo di tale obiettivo fu il Ministero della Cultura Popolare, che concentrò la sua attenzione sul rapporto tra cultura e masse, producendo attraverso i tre mezzi di comunicazione basilare: stampa, radio, cinema una profonda convergenza tra cultura e propaganda.

Questo obiettivo era alla base di un altro postulato intrinseco del regime, ossia l’integrazione totale di tutti i cittadini in un’unica esperienza nazionale ed il fascismo in quanto sistema totalitario fondo il proprio successo sulla capacità di organizzare un controllo sociale sistematico sia a livello individuale che di gruppo.

Complementare al problema dell’integrazione culturale fu il tentativo di creare una cultura di massa, cercando di porre fine al monopolio culturale delineato dalla tradizionale base di classe medio-superiore. Il regime aspirava a portare la cultura tra le classi diseredata, operai, contadini stimolando l’entusiasmo popolare per la lettura, per il teatro introducendo, elemento fondamentale per la costruzione del consenso, la radio e il cinema nelle campagne.

“ La massa per me non è altro che un gregge di pecore finché non è organizzata. Non le sono affatto ostile. Soltanto nego che possa governarsi da sola. Ma se la si conduce bisogna reggerla con due redini: entusiasmo e interesse" (12). Fondamentale fu quindi per tale obiettivo la geniale intuizione mussoliniana di creare un sottosegretariato per la stampa e la propaganda, successivamente il ministero per la cultura popolare, pilastri della fabbrica del mito mussoliniano, alla cui costruzione si interessò lo stesso Mussolini mettendo alla “testa dei principali mezzi di comunicazione uomini capaci di coltivare e far crescere un culto del duce acritico e martellante” (13).

Ciò di cui soprattutto i fascisti accusavano lo Stato liberale era la mancata nazionalizzazione delle masse, causa questa della indisciplina dei lavoratori italiani e del disordine della politica, lo scopo principale della rivoluzione nazionale era proprio quello di fare aderire le masse allo Stato nazionale.

All’inizio degli anni venti il significato della “nazionalizzazione delle masse” fu interpretato come l’autorizzazione da parte delle squadre delle camice nere a far rigare i lavoratori con le botte; bisogna poi tenere conto che fino alla metà degli anni venti, i mezzi di comunicazione di massa erano troppo poco sviluppati perchè il regime potesse sfruttarli pienamente per inculcare i principi e i valori del fascismo disciplina, obbedienza e lotta: credere, obbedire e combattere. Mancavano inoltre istituzioni sociali periferiche ed intermedie che avrebbero potuto essere convertite per lo scopo; tale carenza fu l’eredità dello Stato liberale capitalista che non era riuscito a formare gente capace di scrivere e di leggere, elementi fondamentali per il sostegno della cultura civile. Motivo per cui l’organizzazione diviene l’elemento principale del regime per costruire il consenso: organizzare una base istituzionale capace di garantire il controllo culturale, organizzare per convincere i riluttanti e scuotere gli apatici, organizzare per ridurre i conflitti di classe, organizzare la vita sociale attraverso tutta una gamma di attività sociali, dallo sport ai metodi di allevare i bambini.

L’organizzazione in senso lato delle masse fu in sostanza una necessità imposta al duce per fronteggiare una resistenza popolare ancora molto forte, condizionata anche dalla grande industria che pretendeva “il principio nettamente fascista della gerarchia e della disciplina in tutti i rapporti economici e sociali” (14).

I fascisti cominciarono a pensare ai problemi culturali in maniera concreta, in seguito alla crisi politica determinata dall’assassinio, da parte dei fascisti stessi, del deputato socialista Giacomo Matteotti. In seguito a tale evento i partiti di opposizione accusarono Mussolini e i suoi seguaci di essere direttamente responsabili del delitto, chiedendo le dimissioni del governo fascista; sentendosi così minacciato Mussolini annunciò in un discorso alla Camera la creazione della dittatura fascista e la soppressione di ogni libertà. L’omicidio Matteotti segna così la fine dello Stato liberale e l’inizio del consolidamento del regime fascista.

In realtà vi era stata da parte di Mussolini una sorta di mossa preventiva per affrontare l’opposizione; difatti nel ‘23 aveva fatto approvare una serie di decreti miranti ad assicurare al governo il controllo sui quotidiani e sui periodici, essendo Mussolini giornalista conosceva benissimo l’uso in positivo ed in negativo della stampa, e della sua capacità di influenzare l’opinione pubblica. Queste esperienze furono utili nel controllare le crisi politiche più acute; difatti durante la crisi Matteotti il Ministro dell’Interno utilizzò ampiamente i decreti per il sequestro della stampa d’opposizione. Bastava l’ufficio stampa mussoliniano a fungere da agenzia stampa, con compiti di controllo della stampa italiana ed estera. Fu dunque la drammaticità della crisi Matteotti ad evidenziare agli ambienti fascisti l'importanza del problema del controllo della cultura.

Le mosse successive del regime furono suggerite dalla necessità di controllare gli intellettuali, di eliminare il dissenso e di ottenere l’adesione dell’intellighenzia favorevole al regime, la quale nel congresso degli intellettuali fascisti, svoltosi a Bologna nel 1925, sostenne che in Italia nessuna cultura potesse esistere fuori del fascismo. In seguito al contro manifesto crociano in difesa della dottrina liberale e che riteneva “ il fascismo un incoerente e bizzarro miscuglio di aborrimenti della cultura e di conati sterili verso una cultura priva delle sue premesse”(15), Mussolini prese atto della necessità di porre ad un attento controllo la cultura nazionale attraverso la creazione dell’Istituto nazionale fascista di cultura, sotto la presidenza di Giovanni Gentile. L’istituzione basata sulla filosofia gentiliana e mirante alla formazione di un’organica coscienza nazionale e alla creazione del nuovo italiano fu il primo programma sistematico di propaganda di massa avviato dal governo fascista. Le attività dell’istituto consistevano in conferenze, convegni, concerti, visite a musei, corsi di lingue, programmi didattici e attività di partito.

Successivamente fu creata la Reale Accademia d’Italia, l’istituzione culturale più famosa del fascismo, verso la quale Mussolini diede istruzioni alle comunicazioni di massa di avere il massimo rispetto e deferenza. In realtà questa seconda istituzione culturale servì ad imporre l’autorità fascista sull’alta cultura, difatti successivamente l’Accademia concentrò le sue energie quasi esclusivamente alla propaganda culturale e politica.

Contemporaneamente alle creazioni dell’Istituto e dell’Accademia, cominciò la fascistizzazione degli enti culturali pre fascisti, la Scala di Milano e l’Accademia di Santa Cecilia, la Dante Alighieri, la Lega Morale Italiana, l’Istituto per la storia del Risorgimento ed altre istituzioni culturali minori, furono poste sotto il controllo dello Stato e trasformate in strumenti della propaganda fascista.
nel campo delle comunicazioni di massa, il governo istituì verso la metà del 1924 l’Unione Radiofonica Italiana e l’Unione Cinematografica; attraverso il Consiglio Nazionale delle Ricerche si effettuò un accurato controllo della ricerca scientifica e tecnologica italiana, verso gli anni trenta tale organo ebbe un ruolo importante nello sviluppo tecnologico della radio.

Il passo successivo per un controllo minuzioso della vita culturale fu l’organizzazione Sindacale degli intellettuali, raccolti in una confederazione nazionale dei sindacati fascisti dei professionisti e degli artisti e la Confederazione dello Spettacolo, basati sulla teoria sindacale che , gli intellettuali, andavano considerati come dipendenti dello Stato in quanto lo stato dava loro il lavoro, per cui lo scopo dei sindacati non fu quello di salvaguardare gli interessi delle categorie ma quello di guidare le loro attività professionali. In concreto i sindacati non avevano nessuna autonomia, ma erano strumenti nelle mani del regime e chiunque volesse esercitare una professione doveva obbligatoriamente iscriversi all’albo del sindacato, con requisiti specifici quali la tessera fascista e la prova di una condotta non contraria all’interesse nazionale; era cioé un metodo per eliminare gli elementi antifascisti da qualsiasi ambito della vita culturale. Il regime ricattò con l’arma del bisogno economico e del diritto al lavoro una classe intellettuale rendendola dipendente dello Stato, la quale dovette adattarsi alle esigenze culturali del fascismo.

Contemporaneamente l’azione di condizionamento sociale e di consolidamento fascista proseguì attraverso una serie di programmi miranti al controllo dei gruppi giovanili al fine di educare la gioventù italiana agli ideali e alle norme fasciste.

Il controllo dei gruppi giovanili fu assunto da un giovane dirigente del partito con l’Opera Nazionale Balilla, Gruppi Universitari Fascisti, e i Fasci Giovanili di Combattimento la cui funzione fu quella di ottenere un’educazione morale, spirituale e guerriera. L’iniziativa più marcatamente fascista di nazionalizzazione della gioventù fu la militarizzazione e successivamente fu introdotto nei fasci giovanili l’obbligo delle istruzioni premilitari, con il risultato che i plotoni dei Giovani fascisti assomigliavano più o meno alle bande dei defunti squadristi. Lo stesso Mussolini fu cauto su questo tipo di addestramento e i giovani se pur accettavano il servizio di leva, non accettavano invece le ore settimanali di addestramento premilitare.

Se però il regime fascista non riuscì completamente nell’intento di rendere la gioventù italiana più militarizzata, riuscì ad indirizzarne buona parte allo sport, attraverso il patrocinio di attività sportive, basato sull'idea che produrre campioni sarebbe stato essenziale per il prestigio della nazione, per cui il fascismo sfrutto lo sport a fini totalitari e non patriottico, considerandolo come un mezzo efficiente per legare i giovani agli ordinamenti e al costume, e fornire sollievo e distrazione ai lavoratori. La maggior parte dei fascisti considerava l’atletica non solo come un mezzo di sviluppo fisico e morale della gioventù, ma soprattutto come uno stile di vita consono allo spirito militaristico fascista.

In riferimento al problema del consenso, necessario introdurre una categoria molto più confacente ai metodi del fascismo: coercizione, intesa nel senso di estrinsecazione dell’apparato repressivo dello Stato e del regime, dei mezzi di comunicazione di massa, della repressione culturale del dissenso. Trovandosi in una condizione di monopolio politico caratterizzato da un regime a partito unico, necessariamente si deve considerare la coercizione come l'elemento decisivo per potere esercitare un dominio su masse altrimenti indifferenti o addirittura ostili.

La prima fase della conquista del potere politico costituzionale (1919-1930), difatti si basò sulla distruzione dello Stato liberale e delle sue più importanti istituzioni, con la soppressione degli strumenti e degli istituti di formazione dell’opinione pubblica ___ partiti, sindacati, stampa, associazioni ___ , sostituiti da un sistema di potere che ha il suo centro nell’apparato repressivo e burocratico dello Stato, riorganizzato a difesa del regime. A completamento vi é la macchina della propaganda, del proselitismo, delle organizzazioni tese a seguire i cittadini per tutta la loro vita.










Note


(1) Nicola Tranfaglia, “Labirinto Italiano. Il fascismo, l’antifascismo, gli storici”, ed. La Nuova Italia, Firenze, 1989, pag. 98


(2) Simona Colarizi,“ L’opinione degli italiani sotto il regime.1929-43 ”, ed. Laterza, Roma-Bari, 1991, pag. 3.

“Tra i sistemi di formazione e attivazione del consenso messi in atto dal regime a livello di massa nella nuova prospettiva in cui all’inizio degli anni trenta si andava ormai collocando il fascismo mussoliniano,oltre a quelli più propriamente specifici come la scuola, le organizzazioni di massa, i sindacati, il partito, particolarmente importanti, sul terreno della propaganda, furono attuati attraverso la stampa e la radio: nel disegno di fascistizzazione della società italiana la politica dell’educazione nazionale e della cultura di massa avevano cominciato ad assumere un ruolo rilevante.
Franco Monteleone,”La radio italiana nel periodo fascista”,Marsilio, Venezia, 1976.


(3) “ Due forze allo stato nascente - due “giovinezze”, potremmo dire - si manifestano nell’Italia degli anni ‘20; e, incontrandosi in quel loro stadio iniziale, si giovano e si nuocciono vicendevolmente: sono il fascista e la radio.” Mario Isnenghi , “Una radio in ogni villaggio”, in AA.VV. “ La Radio, storia di sessant’anni. 1924/ 1984”, ed. ERI, Torino, 1984, pag 71.


(4)Ph.V. Cannistraro, “La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media”, ed. Laterza, Roma-Bari, 1975, pag. 225.
“ Mussolini, che all’inizio non aveva dimostrato molto interesse alla radio, s’era reso conto col tempo, anche per la vasta risonanza che alcune trasmissioni radiofoniche avevano suscitato in altri Paesi, dell’importanza che il nuovo mezzo di comunicazione avrebbe potuto rivestire per l’azione propagandistica del regime”. Valerio Castronovo , “ Il modello industriale”, in AA.VV. “La radio, storia di sessant’anni 1924/ 1984”, ed. ERI, Torino, 1984, pag 76.


(5)“La radio vedeva la luce nel pieno del processo di radicalizzazione autoritaria del nuovo potere, quando la classe dirigente fascista si poneva in termini drammatici il problema del controllo dell’opinione pubblica per superare la crisi di credibilità provocata dal delitto Matteotti.” Antonio Papa, “ Storia politica della radio in Italia”, ed. Guida, Napoli, 1978, Vol. I, pag. 22


(6) Edward Tannenbaum, “L’esperienza fascista”,ed. Mursia, Milano, 1974


(7)Valerio Castronovo , “Il modello industriale”, in AA.VV., “La radio, storia di sessant’anni 1924/1984”, ed. ERI, Torino 1984, pag. 76.


(8)Franco Monteleone, “La radio italiana nel periodo fascista”, ed. Marsilio, Venezia 1976.
L’ascesa del nazionalsocialismo era vista come un concorrente competitivo, dotato di efficienti strumenti per la manipolazione del consenso, tanto che: ” E’ venuto ormai il tempo di centralizzare questi servizi - affermava un promemoria - anche perché sotto la pressione della propaganda nazionalsocialista che dimostra di essere già un’organizazione senza economia e abbastanza abile, noi dobbiamo difendere le nostre posizioni per evitare il crearsi di formidabili equivoci e soprattutto per impedire che le caratteristiche del pensiero e dell’azione Mussoliniane possano essere contrabbandate sotto l’etichetta NAZI”( ACS Ministero della Cultura Popolare, 1933,busta 155, fasc. 10, <<Ufficio Stampa>>; anche in F.Monteleone,op. cit. pag. 88)


(9) E. Ragionieri, “La storia politica e sociale”, in Storia d’Italia, Vol. IV, Dall’Unità a oggi, tomo III, Einaudi, Torino, p. 2243.


(10)Antonio Papa, “Storia politica della radio in Italia”, ed. Guida, Napoli, 2°Vol., 1978


(11)“Ciano inaugurò la prassi di sottopporre a Mussolini le autorizzazioni richieste dalla direzione dell’EIAR in merito a programmi importanti, come per esempio le Cronache del regime, che vennero messe in onda nel 1934”, in F. Monteleone, op. cit. , pag. 89.


(12)Nicola Tranfaglia, op.cit.


(13)Nicola Tranfaglia, op.cit. pag. 55


(14)Victoria De Grazia, “Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista. L’organizzazione del Dopolavoro”, Bari, Laterza, 1981, pag.9


(15)Ph.V. Cannistraro, “La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media”, Laterza, Roma-Bari, 1975, pag. 21.

18.11.06